Intervento di Franco Osculati al congresso provinciale dell’Anpi

Sabato 19 marzo si è svolto il congresso provinciale pavese dell’Associazione nazionale Partigiani d’Italia. Pubblichiamo qui l’intervento pronunciato in quella sede dal nostro compagno Franco Osculati, ordinario di Scienza delle finanze e ex-assessore provinciale.

Vengo subito al dunque. Se l’Anpi non ci fosse bisognerebbe crearla perché l’Anpi è una delle pochissime voci organizzata che ci parlano della democrazia e di democrazia. Questo avviene in un momento in cui la democrazia, che dovrebbe essere un mito trainante, nonché un valore fondante di ogni Paese moderno, è in difficoltà.

La democrazia oggi è tenuta in scarsa considerazione per vari motivi. Tra questi c’è anche una questione sociologica. Viviamo in una situazione di individualismo esasperato. Nella storia altri momenti e altri contesti hanno visto grande individualismo. Il grande pensatore francese Alexis de Tocqueville nel suo celebre viaggio in America, siamo all’incirca prima della metà dell’800, trovò una società molto individualista; individualista sì, ma di un individualismo temperato dallo spirito patriottico e da ciò che oggi chiameremmo “capitale sociale”, ovvero dalla spinta diffusa e convinta all’associazionismo disinteressato e filantropico. Ricordo che il patriottismo è ben diverso dal nazionalismo. (Anche ai tempi del’Unione Sovietica la seconda guerra mondiale veniva ricordata come “guerra patriottica”). Patriottismo è semplicemente vedersi inseriti in destino comune.

Non vediamo in giro grande slancio per le questioni che vanno minimamente al di là degli interessi egoistici dei singoli o delle singole famiglie (o clan). L’individualismo si proietta e deriva anche in quanto e da quanto succede nei quartieri alti del potere. Non è senza significato che nella nuova versione delle “facilitazioni monetarie” o quantitative easing la Banca centrale europea potrà acquistare direttamente titoli per esempio della Volkswagen ma non titoli del Tesoro italiano che per esempio potrebbero essere necessari per costruire una scuola o un ospedale.

Non a caso sta venendo meno anche lo spirito europeo, o il patriottismo europeo che noi italiani avevamo anche in misura superiore ad altri popoli.

E questo è grave perché sappiamo che gli Stati nazionali ormai poco possono fare per contrastare derive globali quali in particolare la forte polarizzazione del benessere, dei redditi e dei patrimoni. Molto delle nostre condizioni di vita dipende da decisioni opache assunte più o meno consapevolmente in sedi diverse da istituzioni pubbliche trasparenti, criticabili e controllabili. Il peggio è che non si cerca di invertire la tendenza ponendo chiaramente a livello europeo il tema del governo democratico e salvaguardando, o come sarebbe auspicabile, migliorando sul piano interno gli spazi di democrazia.

Si vuole invece modificare nel profondo la Costituzione, così come le destra ha sempre cercato da fare fin dal suo varo nel 1948. E come oggi chiedono alcune potentati finanziari mondiali (come la Gp Morgan) che cercano di lasciarci credere che le regole dell’economia (o della speculazione) siano adatte per anche per orientare ogni aspetto delle vita dei popoli.

Certo c’è un legame tra le condizioni economiche delle persone e la democrazia. Inutile ripercorrere gli esempi storici di questa realtà. Ma non pensiamo affatto che i mali dell’economia si correggano con la riduzione della democrazia, essendo il suo restringimento il vero volto della governabilità: governabilità, cioè la parola ricorrente ovvero il concetto sbandierato a giustificazione della riforma costituzionale in atto.

E’ vero che la Costituzione e i sistemi elettorali devono approdare a un compromesso virtuoso tra rappresentanza e governabilità. E dunque, tanto per incominciare, ci domandiamo: quando l’Italia nel corso degli anni ’50 e ’60 è diventata la sesta potenza industriale del mondo, in quella Costituzione del 1948 non c’era abbastanza governabilità? E, per arrivare ai giorni nostri, quando recentemente il Governo in carica si è vantato di avere approvato in soli due anni molte (e, a suo parere, molte leggi importanti), questo non è avvenuto in un assetto costituzionale bicamerale?

Porre queste domande non vuole dire sostenere la permanenza dell’attuale Senato. La maggior parte dei costituzionalisti e altri studiosi che già si sono pronunciati per il no al prossimo referendum sulla riforma costituzionale sostengono il monocameralismo. Del resto una sola Camera era tra le ipotesi della Costituente. Infatti anche con una sola Camera possono egregiamente operare dei correttivi all’eventuale uso distorto del potere da parte della maggioranza.

Nella riforma ora quasi alla sua approvazione definitiva, invece, abbiamo sia la riduzione del potere del voto popolare, sia la permanenza del Senato. Una prima importante conseguenza è che si complica il processo legislativo. Per rendersene conto basta leggere il testo del vigente art. 70 e il testo del nuovo art. 70.

Il nuovo Senato potrebbe avere una giustificazione se ad esso fosse assegnato il compito, in Italia molto delicato date le forte differenze territoriali, di deliberare in ordine alla distribuzione delle basi imponibili e dei finanziamenti tra lo Stato centrale e le varie Regioni e autonomie territoriali. Ma proprio questo compito è negato al nuovo Senato.

Dunque non si sta né semplificando, né rendendo meglio leggibile il sistema. E ciò – contraddittoriamente – in nome della governabilità.

Il punto è che ci si affida ad una concezione per così dire meccanica della governabilità. Ma quel che conta è la sostanza.

Si lascia intendere che per essere governabile un sistema deve essere veloce. Abbiamo già detto che come dato di fatto risulta che quando c’è stata la volontà politica l’approvazione delle leggi non ha subito ritardi. Quindi la questione vera è quali leggi?

E’ difficile accettare che alla riforma costituzionale si aggiunga un sistema elettorale che potenzialmente e probabilmente assegna quasi tutto il potere ad un solo partito, e al suo gruppo dirigente o di dominio, anche se i voti raccolti da questo partito possono essere una forte minoranza dei voti degli aventi diritto.

Le leggi, e segnatamente le leggi importanti, richiedono non solo di essere approvate e promulgate ma anche – direi soprattutto – applicate. Uno dei mali del nostro Paese è costituito dalle riforme lasciate a metà. Si vara una legge e poi, in periferia, sul territorio o nelle sedi interessate alla materia della legge,  si fa di tutto per aggirare e rinviare. La volontà politica per migliorare deve essere ampia e diffusa. Il cambiamento non sempre è per il meglio, ma anche il cambiamento verso il meglio non può essere imposto per decreto. Raccogliendo una minoranza di voti sarà facile arrivare al potere. Rimarrà difficile governare e risolvere i nostri mali antichi, dalla corruzione all’evasione e alla criminalità organizzata, e magari anche le questioni più recenti, come, lasciatemelo, dire la crescente ignoranza.

Trovo inoltre molto negativo che il sistema elettorale noto come Italicum assegni ad alcune forze politiche un’eterna condanna alla rinuncia al cimento e alla responsabilità del governo. Quale è stato il principale punto debole della prima Repubblica? Senz’altro la convenzione ad escludere i comunisti, nonostante che il Pci raccogliesse più o meno stabilmente all’incirca un terzo dei voti in  elezioni molto più partecipate di quelle che si sono tenute negli ultimi anni. Inutile aggiungere, in questa sede, che l’unica eccezione, sacrosanta, al discorso di non chiudere le porte del potere a alcuna forza politica riguarda i fascisti, anche ai fascisti nelle nuove versioni (anche sociali) purtroppo presenti in Italia e in Europa.

E’ stato scritto e ripetuto che la Costituzione del 1948, specialmente con il suo bicameralismo, è il frutto della diffidenza incrociata di De Gasperi e di Togliatti. Se fosse vero potremmo concludere che talora anche sentimenti obliqui, come per l’appunto la diffidenza, possono avere un seguito positivo. E allora oggi dovremmo essere cauti, molto cauti. Una Costituzione può essere modificata, naturalmente non stravolta se è la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Comunque la Costituzione va intesa come scritta nella roccia. Contrariamente a quanto sembra pensare l’On. Ferrari, la Costituzione non è un  testo legislativo come per esempio la legge finanziaria, che si cambia tutti gli anni. Non è senza significato l’esempio della riforma dell’art. 81 votata nel 2012. L’obbligatorietà del pareggio di bilancio, da essa imposto, è ora contestata da più parti. Non risulta però che sia atto alcuna ulteriore modifica di tale artcolo.

La Costituzione è il principale strumento di chi vince le elezioni. Potrà essere Renzi, ma prima o poi potrebbe essere uno come Salvini o come Casaleggio. Attenzione, si è fatto di tutto per screditare le ideologie e quindi, anche per questo, ci ritroviamo con un elettorato facile preda delle suggestioni e delle emozioni, anche di quelle che si possono generare negli ultimi giorni di campagna elettorale in relazione a fatti importanti ma non decisivi. Siamo sicuri che – Dio scampi – un “Bataclan” tre giorni prima delle elezioni non sposti milioni di voti?

La Costituzione al momento della sua scrittura va considerata se non eterna, duratura. Proprio questa considerazione che è alla base di ogni idea giuridica e pratica della democrazia mi fa dire che la decisione di Renzi di presentare il referendum costituzionale come un giudizio su di lui, sulla sua politica e sul suo Governo è un errore fondamentale. Bisogna votare no anche per impedire a Renzi di realizzare un errore storico imperdonabile.

La nuova legge elettorale e la riforma costituzionale in sostanza restringono l’area del potere quasi tutto a Palazzo Chigi. E’ sbagliato. Andiamo verso tempo difficili nei quali ci sarà bisogno del contributo di tutti, nella normale dialettica maggioranza e opposizione, destra e sinistra. Nell’ultimo libro di Claudio Magris (Non luogo a procedere), che descrive tra l’altro quanto avvenne a Trieste negli ultimi giorni di guerra, ad un certo punto compare la seguente riflessione: “Per fare la guerra non c’è bisogno dell’odio”. E’ una constatazione terribile se rivolta al passato. Talora si giunse alla guerra senza neppure un grande investimento emotivo. Bastarono gli interessi di taluni. E’ agghiacciante anche riferita all’attualità perché realistica.

Attenzione, viviamo tempi difficili; non è garantito che in futuro non si rotoli ancora una volta verso il peggio, quasi senza accorgersene. Abbiamo però un antidoto che è la democrazia. Abbiamo un protagonista nella difesa della democrazia. E’ l’Anpi. Ora e sempre viva l’Anpi.

 

 

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